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L’imperdonabile caffè bruciato di una pasticceria bene

I maestri delle pasticcerie italiane danno il cattivo esempio sul caffè. E se lo fanno loro, vien da chiedersi quando un buon espresso al bar smetterà di essere un’eccezione.

Togliete il caffè dalle mani dei grandi pasticceri, almeno. Bruciato, muffato e ciononostante candidato all’Unesco, sopravvalutato nella nostra tradizione e sottovalutato nel gusto, nei nostri bar e ristoranti, il caffè è bistrattato nel peggiore dei modi proprio laddove sarebbe parte integrante di un’offerta gastronomica: le pasticcerie.

Che nella maggior parte dei casi propongono:

  • una caffetteria senza nome, né arte, né parte, bruciacchiata ma a prezzo leggermente superiore rispetto ai soliti bar, perché il posto si paga, ma è il caffè no;
  • in alternativa, una caffetteria “firmata” dallo sponsor/partner commerciale in bella mostra sul menu, spesso bruciacchiata.

Okay, il discorso è trito è ritrito e ciclicamente torna in voga (giusto qualche giorno fa su Repubblica, per esempio). Da anni sulle pagine di Dissapore ripetiamo che l’espresso di cui tanto andiamo tronfi è mediamente zozzo, recensiamo pasticcerie più o meno blasonate alzando il ditino sulla tazzina che puntualmente abbassa il livello, parliamo di onde del caffè, immaginando che la third wave dello specialty possa educare i palati con più velocità, auspicando più in generale che la maggiore sensibilità e assoluta urgenza rispetto al tema della sostenibilità -ambientale ed economica- possa sensibilizzare maggiormente il mercato in maniera trasversale.

Insomma, prima ancora del risultato in tazza e dei virtuosismi sulla scelta di questa o quella singola piantagione, questo o quel processo estrattivo, speravo avremmo iniziato seriamente a chiederci da dove caspita arriva quella drupa, com’è coltivata, come sono gestiti i rapporti commerciali e quanto è pagato l’agricoltore. E perché, dannazione, stiamo pagando il caffè del bar 1 euro.

Una nenia che ci ripetiamo spesso insomma, spesso puntando il dito contro il bar qualunque, che in fin dei conti ha l’unica colpa di avere un’offerta qualunque. Ma se posso perdonare l’ignoranza del baretto di paese, capisco molto meno le scelte di chi ha curato e selezionato ogni aspetto dell’esperienza, trascurando proprio il caffè.

Perché le pasticcerie odiano il caffè?

Alcune di queste sono diventate delle vere e proprie mecche gastronomiche (le conosciamo, no?): il grande lievitato da 40 euro al kg, la pasticceria “alta”, scontrini medi proporzionati all’esclusività dell’esperienza e poi ti ritrovi a sorseggiare un caffè che vorresti dimenticarti ma non riesci, il ricordo è così pessimo da vincere il guinnes in persistenza.

Ecco, io davvero non vi capisco. Trovo in questi contesti certe scelte inizino davvero a stridere, perché si osserva cura in tutto tranne che sul caffè, perché chiamiamo Maestri gli artigiani che professano i loro credo e perché siamo disposti a pagare purché ci educhino con quel credo. Non si tratta nemmeno di indossare i panni dell’ambasciatore, più semplicemente vorrei poter osservare la medesima cura che osservo nel selezionare l’agrume x e la farina y, per dire. La tazzina di caffè dozzinale mi rattrista più qui che altrove, perché è in contesti come questi dove mi aspetto si faccia cultura.

Sto forse dicendo che non esistono esempi virtuosi? No, affatto. Ci sono artigiani e imprenditori che hanno fatto scelte diverse: Paolo Brunelli e il suo Combo a La Marzocca e Mara dei Boschi, restando sempre in tema di gelatieri, Dolce Mascolo a Frosinone e i ragazzi di Forno Brisa. Ma anche Rimessa Roscioli e Walter Musco, tutti nomi notissimi che di certo non hanno bisogno di presentazioni –e che sicuramente avrebbero potuto fare scelte commerciali più “comode” (quanto più sei noto tanto più sei corteggiato dai grandi marchi e a volte foraggiato con sponsorizzazioni)- ma che hanno deciso di proporre caffè con un occhio alla filiera e al risultato in tazza.

E se penso a contesti meno mainstream come non citare Bedussi, locale bresciano con un’ampia proposta dolce e salata che tratta specialty dal ’92. O Erzulie Dolcevite, deliziosa season backery in quel di Traversetolo in provincia di Parma. O ancora Cristalli di Zucchero a Roma, la Casa del Dolce della famiglia Bertolini a Cologna Veneta, ma anche a La Foietin in quel di Schio in provincia di Vicenza. O ancora Vanilla Biscotti a Palazzolo Sull’Olio.

L’elenco è senza dubbio incompleto, del resto non era quella l’intenzione, cercavo piuttosto esempi utili a sottolineare il fatto che è possibile fare scelte diverse: si possono proporre caffè migliori sotto tutti i punti di vista (etica, sostenibilità, risultato in tazza) e magari alzare pure lo scontrino medio.

La prassi, invece, è quella di relegare il comparto caffetteria al ricarico più alto possibile, attraverso questo o quell’accordo e spesso rendendosi mascotte di questo o quel caffè, partecipando a un corto circuito culturale in cui i grandi player sguazzano con gioia, perché permette loro di continuare a massimizzare i profitti acquistano una materia prima di scarsa qualità. Un meccanismo perverso, che ovviamente ha ripercussioni inevitabili in tazza. Caffè sovra-tostato per coprire i difetti di una materia dozzinale, con un profilo sensoriale amaro e con sentori di bruciato.

Sradicare questo paradosso culturale tutto italiano è una faccenda complessa, che vede ovviamente coinvolti tutti gli attori della filiera, ma con responsabilità differenti: i grandi pasticceri, ormai alla stregua filantropica dei colleghi chef (e in qualche caso ancor più famosi), ne hanno qualcuna in più.

fonte dissapore.com

articolo di Stefania Pompele